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Una storia d’altri tempi

In diversi paesi e città, che ebbero una solida tradizione rurale, abbiamo spesso incontrato Comuni e Sodalizi che hanno creato i cosiddetti Musei della civiltà contadina, ai quali articolare la vendita di prodotti locali che fanno da richiamo ai visitatori.
Morbegno ha il pregio di avere nel vecchio borgo un Museo animato della civiltà contadina, nato da un’autentica radice familiare e innestato alla natura e ai prodotti più affini da un albero genealogico quasi centenario, con i rami sempre più aperti e operosi che si rinnovano di padre in figlio con l’entusiasmo e l’impegno di sempre.
Risalendo alle origini oltrepassiamo la ferrovia ed evochiamo quel contado che andava dai prati del Bitto a Serta e al Ponte di Ganda per poi ripiegare, ancora dall’Adda, verso Morbegno e la contrada dei Bottà: case rustiche, stalle per gli armenti, prati ben concimati, odore di erba, di fieno, di latte, di strame; orti con tutto quello che la natura può dare ad una famiglia del contado.
Ai Bottà ecco l’esemplare di una famiglia rurale che suggerisce un racconto quasi biblico: quella dei “CIAPUN” (i Ciapponi) con il nonno “Pin” alla testa, un patriarca rude e insieme generoso che prese per moglie Maria, con la quale diede alla luce quattro figli. Ai figli maschi Paolo ed Emilio il padre fece scuola di terra, di sementi, di erba, di fieno, di grano, di lavoro a spalle curve e di onestà; di passione per le bestie e per gli alpeggi, per la produzione casearia iniziando dalle forme domestiche dei “matusch” e dai piccoli commerci famigliari, fatti spesso di baratti con il vicinato e con le botteghe del borgo. L’apprendistato i due ragazzi lo fecero a Roma (seguendo la tradizione dei Cech) come commessi di piccoli negozi.
Un’esperienza sul campo che, quando i due giovani ritornarono a Morbegno, favorì il loro inserimento al lavoro in un’antica drogheria gestita da un esperto di commerci all’ingrosso e al minuto come Carlo Ghislanzoni, esigente con sé stesso e con i suoi dipendenti. Allora si dipendeva, non si collaborava; ma i due giovani avevano tutta la voglia di farlo, e di farlo soprattutto in autonomia in quella rinomata “Bottega dell’orologio” aperta su Piazza 3 Novembre, con l’antica insegna tuttora conservata di “Drogheria – Granaglie – Formaggi – Coloniali”. Il desiderio di Paolo e di Emilio Ciapponi era quello di gestire la drogheria in proprio e, dopo anni di lavoro e di esperienza, riuscirono finalmente a rilevare sia la conduzione dell’esercizio che l’immobile del signor Carletto.
Dopo un’avviata conduzione, non priva di sacrifici, Paolo ed Emilio costituirono una “piccola società commerciale” più che mai legata alla terra e ai suoi prodotti genuini. Una simbiosi spontanea e naturale che fece via via fiorire e consolidare la loro singolare azienda.
Appena fu loro possibile Paolo ed Emilio sposarono due sorelle: Rina e Ida Papini; dalla prima nacquero sei figli e dalla seconda quattro. Entrambe le famiglie vissero insieme di comune accordo nella casa paterna; un nucleo rispettabile di sedici persone che infine, per ragioni di spazio, si dovettero dividere in due abitazioni; mentre nella Bottega dell’orologio il lavoro comune si faceva sempre più impegnativo e richiedeva, nel tempo e nello spazio, la collaborazione di altri famigliari.
Clienti fedeli della bottega le nonnine che scendevano dalla montagna “al mattutino” con la gerla già carica sulle spalle, gli uomini che venivano a fare la spesa grossa con i muli; la gente del borgo e del contado, dei paesi limitrofi.

La passione per la drogheria si trasmise ai due figli di Emilio, Oliviero e Umberto, e ai due figli di Paolo, Primo e Dario, mentre l’azienda guardava ad altri spazi di produzione locale fino alle aree dell’alta e della bassa Valtellina. Intanto il Museo della civiltà contadina continuava ad essere arricchito di utensili usati, a suo tempo, dal contado ed esposti ad arte tra la merce e la frequenza di una clientela sempre più curiosa ed interessata a quell’intreccio tra il vecchio e il nuovo, pur conservando la tipica struttura del bottegone tradizionale.
L’obbiettivo comune – sia pur con le variazioni e i contrasti inevitabili di una società famigliare che si andava trasformando anche legalmente – si fece ben mirato col passare del tempo: quello di specializzarsi nelle esposizioni di merci più pregiate ed a rotazione locale, che fece dei figli anche dei bravi vetrinisti sia all’esterno che all’interno del complesso con il richiamo: di bellissimi cesti di funghi, delle famose castagne dei boschi e di quelle cassinate, del buon miele di castagne e di robinia; delle marmellate di frutti di bosco; dei matusch, e delle bellissime forme di vero Bitto per tutte le stagioni. Il tutto rallegrata dagli ottimi vini della valle, con periodiche degustazioni, e dagli artistici vasi con i prodotti dell’industria conserviera.
Con una compagine famigliare così innestata, se qualcuno di loro se ne andava, come accadde purtroppo al buon Paulìn, tutti ne risentivano per il vuoto della sua presenza e l’esempio del fervore lasciato. (“Hanno innestato la merce – racconta Anna Martinalli moglie di Primo – e con buona volontà sono andati avanti, con il peso dell’azienda caduto sulle spalle di Emilio e degli eredi Primo e Dario”).
Poi alcuni rami si staccarono per necessità (Emilio con Oliviero e Umberto, in altri negozi), mentre la drogheria dell’orologio continua con Primo e Dario (i solerti conduttori di oggi coadiuvati dalle mogli e dai figli), le fresche energie dell’albero paterno si arricchiscono, con Paolo e Alberto, lanciati in un vigore di altre interessanti iniziative per modellare l’azienda sul vecchio stampo, articolato al nuovo disegno del 2000.
Un racconto a parte merita il Bitto che per i Ciapùn è il vanto e l’anima del commercio. Quando dal bottegone si passa ai retrobottega, oltre ad esserci il Museo (presentato, con descrizione, a parte) c’è tutta una sorprendente articolazione di camere e di celle ad alveare che si snodano nelle cantine con altrettanti spazi in penombra, dove giacciono, modellate in bella fila, le forme tonde del Bitto.
E’ un culto profano che ha alcunché di religioso se si pensa che le radici della buona terra e della gente operosa sono là sul fondo a reggere il tutto con la costanza e la sapienza delle cose genuine. Forse manca nella prestigiosa drogheria dei Ciapùn un verticale che suoni a singhiozzo un’allegra ballata del contado fra le forme lisce e spesse del Bitto per tutte le stagioni; qualche arnia esemplare del miele locale, e le tastiere delle bottiglie disposte ad enoteca nel retrobottega e nei vani delle cantine con gusto e passione tutta valligiana.
Il Comune dovrebbe farsi premura di rimettere al suo posto – come ha fatto per la fontana della piazzetta omonima – il vecchio orologio di Piazza 3 Novembre: due elementi, l’acqua e il tempo, che segnano con il Bitto che scorre vicino con quella sua voce nativa che il traffico non ci lascia più sentire – il ritmo giornaliero della vita cittadina.

( Lucia Ciapponi, settembre 1993 )

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